Di Asia, della violenza e dell’agire collettivo

Sono già passati un po’ di giorni e di Asia Argento – che ha dichiarato di essere stata molestata dal produttore Harvey Weinstein quando aveva 21 – si continua a parlare.

I toni sono diversi: accuse, difese, dichiarazioni di simpatia e antipatia.

Sappiamo anche in tutto il mondo occidentale diversi hashtag come #meetoo e #quellavoltache stanno spingendo donne che hanno subito violenza mentre cercavano o volevano mantenere il lavoro a venire allo scoperto.

Il 25 novembre cadrà la giornata mondiale per manifestare contro la violenza alle donne e i calendari si infittiscono di appuntamenti e manifestazioni.

Sperando di essere fuori dal tiro incrociato di accuse reciproche che ormai infiamma anche gli animi delle femministe, interessa qui cercare di capire cosa succede quando è una donna del mondo dello spettacolo – e con lei molte altre a fare outing – e cosa accadrà quando l’onda degli hashtag si placherà per fare spazio ad altro. Non è qui in discussione il lavoro delle molte e dei pochi che ogni giorno si adoperano contro la violenza alle donne, quanto lo spostamento del baricentro di interesse che segue l’onda lunga di eventi questo.

Un esempio per tutti. Pochi giorni fa La Stampa ha riportato che sono circa un milione le donne italiane vittime di molestie e ricatti sul posto di lavoro (http://www.lastampa.it/2017/10/14/italia/cronache/un-milione-di-lavoratrici-vittime-di-ricatti-sessuali-e71YiRgKqStxDagTwt5LmK/pagina.html): non ho letto molti commenti e nemmeno iniziative a supporto di un dato il cui numero fa rabbrividire. Mi chiedo perché la presidente della Camera Laura Boldrini abbia chiesto ufficialmente a Asia Argento di non lasciare l’Italia e non si sia spesa per quel milione di altre vittime che non può e magari non vuole lasciarla.

Da lungo tempo manifestazioni nel nostro e nel resto del mondo vedono migliaia di donne nelle piazze contro la violenza: la copertura mediatica è mortificante. Cosa accade dunque? Forse manifestare non è più abbastanza? Forse organizzare concerti per sole donne risolve il problema della nostra sicurezza?

Paolo Dossetti si domanda sulla rivista Doppiozero (http://www.doppiozero.com/materiali/harvey-weinstein-e-la-mano-invisibile-del-mercato) come spiegare l’assenza di collaborazione e sostegno di fronte ai soprusi da parte di una collettività che non appare all’altezza del suo nome. Scrive Dossetti: “Questa domanda è anche all’origine del cosiddetto ‘dilemma dell’azione collettiva’, che è diventato poi uno dei concetti centrali delle scienze sociali. I problemi di azione collettiva hanno luogo quando gli individui, facenti parte di un gruppo, selezionano strategie che generano degli esiti che sono tutto tranne che ottimali per il gruppo nel suo complesso. Non a caso, l’unico equilibrio che emerge in queste situazioni è quello di Nash, detto ‘della defezione reciproca’: ovvero nessun attore è incentivato a partecipare alla ribellione collettiva, sebbene tutti siano nelle condizioni di beneficiare dal successo della stessa. Da qui il paradosso. Questa fragilità dell’animo umano, e la conseguente – e in qualche modo inevitabile – necessità di uno Stato o di sindacati che facciano rispettare gli accordi presi – è la base del Leviatano: gli individui non sono in grado di prendere degli impegni credibili ex ante, laddove ex post esistono delle tentazioni rilevanti per violarli. I soli vincoli delle parole sono, infatti, considerati ‘troppo deboli per frenare l’ambizione, l’avarizia, l’ira e le altre passioni degli uomini’”.

Se dunque come ben sappiamo la questione è politica e riguarda il capitale sociale, le domande che dovremmo iniziare seriamente a porci riguardano nuove forme di lotta e di advocacy, una riflessione senza tema riguardo alle posizione che in quanto donne (e uomini) assumiamo di fronte alle mediaticità di eventi come quello dell’attrice italiana di fronte all’oscurità in cui altri vengono relegati, una visibilità che porti materia viva nell’agire individuale e collettivo.