Narrative di guerra/ Minoranze
Il mondo cerca di nascondere la persecuzione dei cristiani, ha detto ieri il pontefice commentando la strage avvenuta in due chiese ieri a Lahore, che ha provocato 15 morti e numerosi feriti.
In realtà, se è pur vero che la stretta dell’integralismo islamico sta mietendo vittime anche nel mondo cristiano (la maggioranza dei morti è ancora musulmana, ricordiamolo), dal Pakistan arriva sulle pagine dei nostri giornali solo questo ultimo evento, appunto perché riguardante la comunità cristiana (quasi un milione nella sola Lahore). E a noi fa più impressione del solito perché mai le nostre generazioni avevano visto il mondo cristiano sotto attacco, cosa si prova ad essere “minoranza”.
In realtà sono tutte le minoranze a essere sotto attacco nel paese (questo sì lo ha ricordato Federica Mogherini a nome della UE): tre settimane fa gli sciiti nella moschea a cento chilometri da Karachi, ancora prima la minoranza indu e un’altra a Quetta, in Baluchistan.
Se è difficile rispondere agli amici in Italia e ai colleghi che mi chiedono cosa pensa il Pakistan della minaccia terroristica che ha colpito l’Europa, perché sembra quasi scortese dire qui non se ne parla poi tanto, visto che nemmeno noi ce ne preoccupiamo.
Il Pakistan è sotto un attacco interno che dura da lungo tempo: l’operazione militare contro i talebani in Nord Waziristan starà pur dando i suoi frutti (primo sulla pelle dei quasi due milioni di rifugiati che stanno ancora soffrendo il morso dell’inverno a nord del paese, a Bannu, poi su quella degli stessi militari che hanno perso i propri figli nella strage di Peshawar lo scorso dicembre), ma nelle città non vi è nessuna sicurezza di essere protetti dagli attentatori che si fanno saltare in aria. Non c’è modo di fermarli, non c’è soprattutto modo di non farli entrare in città, perché parliamo di metropoli con milioni di abitanti e tra questi molti pronti a proteggere gli integralisti, a nascondere loro e le loro bombe. Non solo nelle madrasse, dove i bambini vengono mandati a studiare perché non costano nulla: qui si parla di persone capace di far entrare armi ed esplosivi in luoghi dove i detector nelle mie tasche abitualmente individuano anche il fermaglio dei miei capelli.
Ogni giorno, anche a Lahore, attraverso check point, mi viene aperto il bagagliaio dell’auto, uomini controllano con gli specchi che non ci nulla innescato sotto la macchina. Ma anche io sono un bersaglio, un bersaglio minore. Un bersaglio impotente che guarda la folla inferocita, stanca di piangere ancora morti in famiglia e tra gli amici, che lincia due sospettati, che se la prende con la polizia accusata di non fare abbastanza.
Così da un lato l’incapacità del governo di elaborare un piano di sicurezza che metta al riparo le città e i suoi abitanti, limitandosi a deplorare gli attentati. Dall’altra una cittadinanza infuriata si ma non ancora organizzata, attiva, consapevole: oggi non solo i cristiani avrebbero dovuto manifestare, ma anche tutti i musulmani, chiudendo scuole, uffici e negozi, invitando magari i cristiani a pregare in moschea. No, questo ancora non lo vedo in Pakistan: la mancata coscienza politica dei più e la paura dei molti fanno tornare tutti a casa la sera, a guardare un rassicurante notiziario, apparentemente lontani da una minaccia, che ha già bussato più volte alle porte di casa.