Narrative di guerra/Ragazze con la pistola

Questo mio articolo compare nel nuovo numero della rivista Leggendaria (www.leggendaria.it) dedicato alle Migrazioni.

La domanda è semplice, la risposta non lo è affatto. Perché le combattenti curde riscuotono tanto successo?

Ovvie le prime osservazioni che vengono alla mente: perché lottano per l’indipendenza della loro terra, sono leader della comunità, non hanno esitato a imbracciare le armi per combattere. Sono diventate in pochissimo tempo una icona della contemporaneità, brave in battaglia come nei social media. Il mondo le ama, nulla di male.

Allo stesso tempo l’iconografia del presente mostra molte altre immagini di donne armate: le giovani laureate inglesi che si arruolano nell’IS e vanno a combattere in Siria; le militari impegnate nelle forze armate di ogni paese in conflitto. Insomma, tutte loro combattono, uccidono. Ed è così che provo a guardarle ora, attraverso le immagini che mi restituiscono le ambivalenze di mondi che in pace non sono e che vedono altrettante donne in prima linea, questa volta fuori dalla fiction.

La prima che mi torna in mente è legata alla mia storia familiare: la donna con la divisa nera mentre fa il saluto romano e il sorriso smagliante, le guance paffute che le sono rimaste fino alla morte, è mia nonna: fascista sin dalla gioventù, attivamente impegnata sul campo, durante la guerra affidò a mio nonno mia madre e mio zio – ancora molto piccoli – per ricoprire la carica di ispettrice del Fascio. Insegnava alle donne come calarsi dalle case in fiamme usando un lenzuolo alla maniera degli ergastolani; come bollire l’acqua, come tenere in buona salute i bambini quando non c’era da mangiare. Mia madre la ricorda una sola volta ubriaca del gin portato dagli americani, nei giorni di piazzale Loreto. Io la ricordo come colei che si è sempre presa cura di me, che mi insegnava a giocare a carte come ogni napoletana della buona società sapeva fare; pure io, ormai grande, femminista e di sinistra, la interrogavo sulla scelta, che forse allora per la maggioranza era l’unica opzione possibile. Tengo quella foto nella mia camera, insieme a un’altra della stessa donna anziana in parrucca che va ad accogliere all’aeroporto il figlio emigrato in America.

Per una associazione di idee che non saprei sciogliere e sempre andando a ritroso, ho ritrovato alcuni scatti del 2002: duecento terroristi ceceni – in maggioranza donne – occupano un teatro di Mosca chiedendo il ritiro della truppe russe dalla loro terra. Putin fa ordinare il lancio di gas mortale nel teatro, sterminando un terzo degli spettatori e oltre cento donne cecene: le guardo oggi, cenerentole vestite di nero, con giubbotti imbottiti di esplosivo che giacciono come addormentate sul velluto rosse delle poltrone, perché la loro mezzanotte è passata da un pezzo e

non ci sono né zucche né carrozze a riportarle a casa.

Mi obbligo a guardare cose ben più spregevoli per il mio sguardo di donna: le soldate americane nel carcere di massima sicurezza di Abu Ghraib a Baghdad, che nel 2004 furono al centro di uno scandalo internazionale e accusate di tortura e sevizie ai prigionieri iracheni: sorridono usando le dita in segno di vittoria mentre posano su un mucchio umano di prigionieri con la testa avvolta in sacchi di plastica o mentre li fanno camminare carponi al guinzaglio o ancora li fanno avvicinare dai maiali, banditi dalla religione musulmana.

Oltre dieci anni dopo l’iconografia muta e così la qualità degli scatti: chiunque può ritrarre l’attimo presente, migliorarlo tecnicamente e offrirlo al mondo in tempo reale. Veniamo all’oggi del Kurdistan. Non a caso intorno a giorni di Natale, circola una splendida immagine: una combattente florida, le vesti lunghe, è seduta su una sedia spartana in una stanza vuota. Allatta il suo bambino, alle spalle contro il muro è appoggiato un AK-47; la sua pelle è rosea e brillante, gli occhi chiari, il pantaloncino del bimbo è azzurro come quello delle madonne di Antonello da Messina, la posa quella di una Vergine di Piero della Francesca, “piena di grazia”, se avesse gli abiti decorati di perle sembrerebbe opera del rinascimentale Cosmé Tura. Combatte, è madre, è curda, è decisamente il suo momento. Come lo è quello delle ragazze sue compagne di lotta, che iniziano a mostrarsi sia con divisa verde o tuta mimetica e lanciarazzi, o mentre danzano insieme tenendosi per mano.  Ancora, sdraiate tra i fiori nell’erba, le armi sempre accanto, mi ricordano le nostre mondine, Silvana Mangano in Riso amaro. Ovvio che mi piacciono e che mi sento sodale, non potrebbe essere altrimenti.

Allo stesso tempo e con la stessa fascinazione sono rapita dallo scatto di due soldate pakistane nel deserto: abaya nera che lascia scoperti solo gli occhi, ginocchio a terra, si esercitano a usare la mitragliatrice. In altri scatti scorgo il rosso dello smalto sulle loro unghie e in qualche modo la cosa mi intenerisce: so quanto pesante possa essere ancora vivere da donne la vita militare, ma non è questo il punto. Quelle donne spareranno ai talebani o forse si uniranno alle forza siriane per uccidere il militanti dell’IS, dove pure ci sono donne, stesso abito nero, occhiali scuri ultra chic, che leggono i loro comunicati di morte come altrettanto brave anchor women.

E’ possibile conciliare l’ampio e stridente abaco di immagini di donne armate che a vario titolo scelgono di impugnare le armi? Ovviamente no. Ci piacciono le donne curde, sorridenti e con le lunghe trecce ma non amiamo quelle in nero perché uccidono per una causa che non condividiamo. Non a caso la questione che si pone qui è un’altra. Se molte di noi sono state a lungo contro ogni forma di violenza (e contemporaneamente) si sono battute allo stesso tempo perché le donne avessero un ruolo decisivo nelle forze armate, sapevamo o forse immaginavamo di fronte a quali scenari ci saremmo trovate oggi? Le risoluzioni delle Nazioni Unite che da oltre 15 anni chiedono alle donne di farsi motore attivo e agente di cambiamento nelle operazioni di peace keeping avevano forse tenuto conto che oggi alcune delle “nemiche” hanno passaporti occidentali e che in maniera diversamente perversa stanno agendo come motori di ben altri tragici mutamenti?

Quello che le immagini rimandano sono altrettante istantanee del dubbio e dell’ambivalenza che accompagna il presente ma che sopratutto rimettono in gioco le identità femminili, ben oltre lo stereotipo della donna “buona” e di quella “cattiva”: nella galleria iconografica dell’oggi ci sono le combattenti che allattano, le studenti votate all’Islam che scelgono di avere per il resto della loro vita il volto coperto e combattere gli infedeli; la vecchia curda che regge tra le braccia un lanciarazzi (e che sa tanto di foto preparata alla bisogna, in verità, ma fa sempre il suo effetto); e non ultime, la bellissima e toccante immagine delle soldate statunitensi che hanno perso le gambe nei fronti di guerra e decidono di posare come stupende modelle post-atomiche con le loro protesi in titanio. E le artiste ecuadoriane che per la Biennale d’arte di Venezia 2015 hanno scelto di autorappresentarsi con il volto incappucciato da guerrigliere mentre a seno nudo allattano i loro bambini.

Tutte loro, tutte noi, abbiamo in comune l’appartenenza agli universi femminili.

“Le fotografie non possono creare una posizione morale, ma possono rafforzarla”, scriveva Susan  Sontag nel suo saggio Sulla Fotografia. Realtà e immagine nella nostra società. “Le fotografie possono essere ricordate più velocemente delle immagini in movimento…La televisione è un susseguirsi ininterrotto di immagini, ognuna delle quali cancella quella che la precede (…) “Una cosa è soffrire, un’altra vivere con le emozioni fotografate della sofferenza, che non rafforzano necessariamente la coscienza o la capacità di avere compassione”. Nel suo ultimo libro, Davanti al dolore degli altri, mentre si avvicinava alla fine della sua vita, Sontag cambia radicalmente opinione: “Lasciamoci ossessionare dalle immagini più atroci (…)  Quelle immagini dicono: ecco ciò che gli esseri umani sono capaci di fare, ciò che – entusiasti e convinti d’essere nel giusto – possono prestarsi a fare. Non dimentichiamolo”.

E dunque noi non dimentichiamo. E più di ogni altro siamo consapevoli nel presente, nel quale ogni conflitto ci chiede quotidianamente di schierarci pro o contro chi spara per la causa che ci sembra migliore o detestabile. Spingendoci ancora una volta nella nostra vita di donne a rimodulare i registri del sentire e dell’interpretare.

Monica Luongo

Susan Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, 179 pagine, 13.50 euro

Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori 2006

Gender in militari operations https://www.facebook.com/groups/115311195225650/