Occidente-fobia

Questo articolo è stato pubblicato sul numero della rivista Leggendaria n.116 “Così vicine, così lontane” (www.leggendaria.it)

Che parte dell’Occidente sia islamofobo non vi è dubbio. Che allo stesso tempo parte del mondo islamico nutra nei confronti del mondo occidentale la medesima fobia è non solo fuor di dubbio, ma allo stesso tempo fenomeno poco indagato.

Le distinzioni sono sempre dovute. Siamo sempre noi a dire che i mondi musulmani sono molti e variegati (e come dicono i più religiosi e saggi ci sono molti musulmani ma un solo Islam), siamo in molte/molti a dibattere da tempo sull’identità femminile rappresentata dall’indossare il velo o sulla schiavitù imposta a chi è costretta a indossare burqa e niqab. Mondi diversi, dicevamo. Il Pakistan conservatore dove vivo, e l’Uganda da cui sono appena tornata, in cui la minoranza islamica (circa il 20%) convive pacificamente con cristiani, cattolici, indi, sikh.

Qual è invece lo sguardo che si posa su di me, occidentale bianca, da tre anni residente in una repubblica islamica? La risposta è complessa: ma quello che è certo è che la reazione a quello/quegli sguardi investe il mio corpo di donna in maniera forte, lo modella simbolicamente, lo infila in abiti che sono lontani dal mondo a cui appartengo, procurando domande ed effetti psicosomatici che hanno richiesto un lungo tempo di mediazione.

Differentemente modulati – dipende dallo stato sociale e dall’educazione dei miei interlocutori – gli atteggiamenti verso di me sono quasi sempre uguali. Sono occidentale? Anzitutto sono automaticamente una bevitrice, preferibilmente di whisky, la bevanda alcolica per eccellenza: così quando vado in una nuova casa dove gli ospiti trasgrediscono alle regole e bevono, un gran bicchiere di whisky mi viene offerto come fosse acqua frizzante. Vado in piscina come tante/i altri stranieri in città: è un albergo internazionale e molti pakistani vengono per vedere le donne in bikini. La rappresentazione della sessualità repressa, dei matrimoni organizzati dalle famiglie di qualunque strato sociale, la proibizione legale di avere rapporti sessuali fuori del matrimonio (ovviamente mai rispettata ma agita forzatamente in segreto), deforma le fantasie per le libertà che un corpo femminile occidentale “si concede”. Così, se le amicizie diventano un po’ più strette, le domande si fanno intime e imbarazzanti; per contro gli uomini più delle donne confidano le loro preoccupazioni e frustrazioni nella loro intimità, perché sanno che hanno di fronte un interlocutore di sesso opposto che almeno può ascoltare. La depressione è epidemica: il Pakistan è uno dei paesi del sud est asiatico in cui l’uso di psicofarmaci è ampiamente diffuso. Tra le domande più ilari figurano quelle relative alle spiagge per nudisti: quante sono, cosa succede. Le immaginano come uno spazio di caccia libera e rimangono profondamente delusi quando spiego loro che si tratta invece di luoghi protetti di libertà dei corpi, dove i bambini sono i benvenuti e i guardoni sono cacciati malamente.

Ancora. In molti pensano che abbandoniamo i nostri anziani in centri dove periscono in solitudine; che lavoriamo poche ore al giorno e guadagniamo molto. La richiesta di visti per l’Europa è in aumento costante, tra giovani e vecchi e, al di là delle reti di mediatori che rubano soldi a tutti i richiedenti procurando falsi quanto inutili documenti per l’espatrio, nessuno si preoccupa di sapere com’è il paese dove vorrebbero andare, anche se ci sono tv e giornali a raccontarlo. Perché in questo caso – quando non si parla di profughi e richiedenti asilo – è il sogno di qualcosa che non c’è a dominare, il miraggio di un modello di vita che non conoscono nemmeno lontanamente, ma che fuor di ogni dubbio più libero è. L’appartenenza politica si accompagna indissolubilmente a quella religiosa: sei cristiana? no sono non credente. Allora sei marxista?

Le donne. Non ho mai avuto tante difficoltà ad avere amicizie femminili come in Pakistan: le donne diffidano le una delle altre perché non hanno relazioni forti tra loro, vengono cresciute nel sogno prioritario del matrimonio e una donna straniera rappresenta una minaccia in molti casi ma anche, e più dolorosamente, il timore di confrontarsi. Naturalmente questo non vale per tutti gli incontri ma entrare in intimità con loro è davvero difficile: affabili al primo incontro, si dileguano al secondo. Perché tutto passa per il corpo: il modo in cui ti vesti, parli, stringi la mano agli uomini, fumi in pubblico, gesti e modalità a loro non concessi.

Nelle grandi città non ho nessuna necessità di portare il velo (così come le pakistane), ma indosso quasi sempre lo shalwaar kamiz, pantalone e tunica tradizionale e la dupatta, il telo all’indiana che copre comunque spalle e braccia e per chi vuole la testa: mi permette di girare liberamente in auto e nei mercati, di mantenere un basso profilo, anche se è chiaro che non sono una di loro, ma l’adeguamento è apprezzato e visto come segno di grande rispetto. Nelle aree rurali, nei lunghi viaggi in autobus e nei piccoli centri la dupatta è fortemente consigliata, se non vuoi fermare il traffico ed essere guardata da tutti: un po’ come i giapponesi, i più giovani ti chiedono una foto con loro. Insomma, alla fine di una giornata di lavoro sul campo, la stanchezza di essere oggetto di tanto guardare è defatigante.

Ora il problema a mio parere non è solo il disagio dei corpi in movimento da un paese all’altro, da una cultura all’altra (penso a come sono osservate in Italia le donne che indossano il velo integrale nelle nostre strade), quanto il valore stringente che la variabile corpo impone allo scontro di culture. E’ come se in questo momento della storia si muovessero avatar piuttosto che umani, corpi separati da anime e bisogni, nemici ai confini di culture ignote. E alla fine i corpi, vivi o morti, pagano il prezzo più alto.

Io, dopo tre anni, ho voglia di tornare nella mia cultura, per quanto differentemente malata possa essere anche essa: indossare una gonna, guidare il motorino, abbracciare un amico per strada, godere della libertà che molte prima di me e con me hanno conquistato. Allo stesso tempo mi chiedo: cosa succederà alle nostre sorelle di sesso che ora vivono nell’occidente impaurito e diffidente?