Per un pugno di voti
Il post è stato pubblicato su Huffington Post (https://www.huffingtonpost.it/monica-luongo/per-un-pugno-di-voti_a_23495856/?utm_hp_ref=it-homepage)
Un testa a testa che per un pugno di voti ha portato alla vittoria il presidente Mnangagwa contro il suo rivale Chamisa ed evitato il ballottaggio già messo in conto da molti per l’8 di settembre. Contrariamente a quanto succede in molti altri paesi, in cui lo spoglio delle schede per le elezioni presidenziali viene iniziato per primo, nel caso dello Zimbabwe la legge elettorale prevede che lo spoglio dei voti per i seggi parlamentari abbia la precedenza. E in realtà – dato il calendario locale – ci sarebbe stato addirittura tempo dal 30 luglio giorno del voto fino al 4 agosto, per annunciare il nome del nuovo presidente.
La commissione elettorale ha annunciato quel 50.8% che ha dato la vittoria a Emmerson Mnangagwa – leader del partito ZANU-PF del dopo-Mugabe – contro Emerson Chamisa del MDC, che ha ottenuto il 44.3%. 144 i seggi del primo partito in parlamento, 64 quelli del secondo, che ne ha comunque portati a casa 39 in più rispetto alle elezioni del 2013. Solo 36.464 hanno evitato il ballottaggio.
Non meno rilevante quello che è successo nei giorni di attesa dei risultati: il primo di agosto nella capitale Harare tre persone sono state uccise durante le manifestazioni di protesta dei sostenitori dell’opposizione, pestate dagli agenti di polizia che non risparmia l’uso dei lacrimogeni e dei bastoni. Accesissimo il confronto sui social network e anche il coraggio dei manifestanti, come quello della ragazza che ha postato su Twitter foto e numero di cellulare dell’agente che ha ucciso due persone (https://twitter.com/princemoyana/status/1024896106981978115?s=11). E fermo il giudizio su quello che è successo durante la campagna elettorale e nel giorno del voto da parte delle organizzazioni internazionali invitate ad osservare il processo elettorale (UE, Unione Africana, NDI/IRI, tra le principali): concordi in generale nel sottolineare i miglioramenti della macchina elettorale, la libertà di recarsi alle urne, la libertà di espressione in molte parti del paese. E altrettanto fermi nel riportare ciò che è stato per oltre un mese davanti agli occhi di osservatrici e osservatori: l’incolmabile spiegamento di mezzi di stato per la campagna elettorale di Mnangagwa, l’uso della forza da parte di agenti di polizia in borghese durante i rallies (in uno dei quali il 23 giugno una bomba contro il presidente ha procurato la morte di 84 persone, incluso il vicepresidente Simon Muzenda), la pressione dei leader tradizionali nei villaggi sulla popolazione, il numero esorbitante di votanti disabili accompagnati nelle urne, la mancanza di trasparenza nella conta dei voti postali e nella presentazione della lista degli aventi diritto al voto (circa sei milioni), che ha impedito agli emissari dei partiti e ai candidati di verificarne l’attendibilità; le minacce ai gruppi di osservatori nazionali. Non ultimo, un appello televisivo dell’ex presidente Mugabe alla vigilia elettorale, che ha pagato per poter invitare la cittadinanza a non votare per il presidente e boicottare le elezioni a favore dell’MDC.
Non ultimo il tentativo della polizia di bloccare la conferenza stampa di Chamisa ad Harare, in cui ha dichiarato nullo e truccato il risultato del voto. Già, perché risulta evidente che l’esercito – che ha diretto il paese e supportato Mugabe fino a deporlo – ora è già alle spalle del vincitore e pronto a scaricare sulla polizia tutte le responsabilità della partigianeria.
Ma questo racconto fa parte dell’ieri e i report si chiamano preliminari proprio perché si fermano al giorno del voto: occorrerà aspettare i prossimi due, tre mesi prima che le organizzazioni internazionali rilascino la relazione finale, che includerà l’esito dei numerosi appelli da parte di chi sta contestando i risultati e le raccomandazioni per il miglioramento del processo elettorale che tradizionalmente vengono esaminate dalla commissione elettorale e poi discusse in parlamento.
Ora si tratterà di iniziare a governare un paese che conta il 90% di disoccupati, che è costretto a servirsi di tre differenti valute (la nazionale, il rand sudafricano e il dollaro statunitense) per sopravvivere a una svalutazione senza precedenti, dovendo contare sulle stesse facce di ieri.