Il Future Sex che c’è ma non si vede

Il future sex dell’americana Emily Witt è già presente. L’universo multiforme della pornografia e le modalità con cui donne e uomini esprimono e vivono la propria sessualità sono ampiamente indagati e praticati in prima persona da chi (una vasta moltitudine) fa uso di piattaforme online, siti di dating, produce video e film porno che – rubo la citazione a un amico intelligente – hanno spostato le esperienze sessuali dall’osceno all’ “io-sceno”.

Pure il viaggio autobiografico dell’autrice ha un suo interesse non solo perché offre un racconto di raduni erotici, sex room e blind-date (rigorosamente etero-wasp) vissute in prima persona durante i suoi trent’anni in cui cercava di configurare diversamente la sua sessualità, quanto piuttosto perché offre un interessante spaccato di come nel giro di un decennio e poco più la morale occidentale abbia rimodulato le relazioni di sesso e sentimentali.

Scrive Witt: “La pornografia può essere considerata come il nadir della civiltà oppure un fenomeno che sta spingendo oltre i confini dell’esperienza umana. I protagonisti di questa pornografia non sono Hugh Hefner, il fondatore di Playboy, o Al Goldstein, l’editore di Screw, ma le donne che riescono ad ammaliare il pubblico in rete e a trarne profitto. Il porno (…) mi ha fornito una risposta interna all’accusa di falsa coscienza che accompagna così tanta espressione della sessualità da parte di una donna”. Non è chiaro qui se chi scrive condanni o si senta liberata, perché il panorama delle esperienze che offre nel suo libro esclude il mondo queer – per esempio – che tanto ha contribuito a declinare i nuovi approcci della pornografia, a ribaltare i rapporti di potere che si costellavano intorno alla iconografia e simbologia del porno (non certo scomparsi), a declinare l’approccio a corpi come multiplo, autodeterminante, accondiscendente i desideri, rubando il campo all’eteronormatività. Ma anche perché la narrazione-esplorazione è pervasa di un fondo di nostalgia per qualcosa che sembra essersi perso per sempre, senza che questo qualcosa sia reificato con puntualità e convinzione.

Intendiamoci, Witt non è una bigotta che rifiuta il poliamore e intende il sesso solo come inscindibile dal sentimento. La sua è una esplorazione curiosa che pure rimane scettica rispetto alle posizioni che il femminismo ha assunto nei confronti della pornografia e mescola temi come la solitudine e la contraccezione (una inquietante condanna della pillola) legandoli ai mutati costumi sessuali.

Dal suo excursus non sono riuscita a trarre conclusioni, se non l’opprimente sensazione che mi procura la più generale morale occidentale-statunitense che si nasconde dietro un apparente apertura a “facili costumi” ma che di fatto resta ancorata a perbenismi di vario tipo. Inoltre e non in ultimo, Witt conclude che l’esperienza di una maggiore apertura al sesso e alla pornografia l’ha resa più libera ma infelice come se ciò l’avesse privata dei sentimenti: “Sperimentare – conclude con cupio dissolvi – con la sessualità significava avere un corpo al traino di una sensazione, un puntino distante verso il quale deve muoversi. Volevamo seguire il nostro corpo in un futuro più progressista, volevamo pensare ci fosse qualche intenzione su cui fare affidamento, ma il numero di persone che una vita può contenere è limitato (…) Il futuro era una storia che sconcertava ed era difficile da capire”. L’eterno rimpianto per l’unico vero sesso che è quello legato all’amore?

Emily Witt, Future sex, minimum fax, 252 pagine, 19 euro.