Violenza/1 La ministra è in campo

Il silenzio dei media sulla manifestazione contro la violenza alle donne che si è svolta a Roma il 26 novembre mi ha lasciato in bocca un saporaccio. Qualcosa che si è risvegliato durante gli ultimi giorni di campagna elettorale, dove in TV ho visto solo uomini in trincea. Un mondo senza sfumature dove, per tornare al tema della violenza, i “non violenti” continuano a non cogliere il senso e la gravità dei loro fratelli di sesso che stuprano, picchiano, abusano.
Cosi oggi, nella giornata di silenzio che ci meritiamo prima del voto, torno a riflettere sulla violenza alle donne, postando un articolo di Franca Fossati e uno mio, entrambi pubblicati sul n.120 della rivista Leggendaria dedicato al tema (“Quando una donna dice basta!). Un ampio dibattito a più voci che potete leggere acquistando il numero in libreria o in formato .pdf sul sito della rivista (www.leggendaria.).

di Franca Fossati

La consegna a Maria Elena Boschi delle deleghe sulle Pari Opportunità (il 10 maggio scorso) arriva dopo un lungo silenzio istituzionale. L’ultima ministra dedicata lo fu solo per due mesi: Iosefa Idem, nominata nel governo Letta, fu costretta alle dimissioni da una forsennata campagna di delegittimazione dovuta a Ici non pagate e altre irregolarità fiscali. Era il 24 giugno 2013, a prendere in mano le deleghe fu la vice ministra al Lavoro Cecilia Guerra. Anche lei durerà poco. Qualche mese più tardi saranno Letta e il suo governo a dare le tanto discusse dimissioni.

Matteo Renzi, che si presenta nominando ben 8 donne ministro su sedici, a nessuna (e a nessuno) conferisce quelle deleghe. Si limita a offrire una consulenza alla Consigliera Nazionale di Parità, la deputata Giovanna Martelli, che a sua volta si dimetterà dal Pd e dalla consulenza. Arriviamo al 2016 senza Ministra e senza politiche specifiche dedicate alle pari opportunità.

Se si pensa al lungo dibattito che ha attraversato il femminismo sul senso da dare all’istituzionalizzazione dei temi delle donne, alle polemiche sul “femminismo di Stato”, alla storica contrapposizione tra parità e differenza, verrebbe da dire che è un bene che non ci sia un ministero ad hoc: con la sua piccola burocrazia, con il suo modesto potere. La politica delle donne e per le donne deve essere in grado di informare di sé tutto il governo – hanno, abbiamo proclamato in tante – che ci importa di fornire un fiorellino all’occhiello del governo di turno?

Eppure sui giornali e sui social si sono susseguite le denunce da destra e da sinistra per l’insensibilità del governo Renzi. Isabella Rauti, da molti anni impegnata sul fronte delle pari opportunità, vede l’assenza del ministero addetto come prova del fatto che la sinistra renziana non ha alcun interesse per i problemi delle donne; una petizione in rete, sottoscritta dai parlamentari cinque stelle e da molteplici associazioni, non solo femminili, invoca un “timoniere” che guidi l’attività del Dipartimento delle Pari Opportunità.

Nel frattempo, nei primi cinque mesi dell’anno, i femminicidi sono già più di cinquanta, qualcuno in meno dell’anno precedente, ma confermano una media implacabile. Succede così che a maggio Maria Elena Boschi, Ministra per i Rapporti con il Parlamento, chiamata sui giornali, chissà perché, confidenzialmente MEB, diventa titolare delle deleghe per le pari opportunità. In realtà tutta l’attenzione della giovane ministra sembra rivolta alla riforma della Costituzione e a fronteggiare le accuse di conflitto di interessi per via del babbo banchiere. Molti si chiedono, e sono i più, le più, benevoli, quando mai troverà il tempo per occuparsi di donne.

Trenta giorni dopo, c’è già chi scrive di “indifferenza e ignavia” (Il Fatto Quotidiano).  Boschi ribatte in un’intervista alla 27esimaora del Corsera che sta lavorando per attuare il Piano antiviolenza e per completare le designazioni per la cabina di regia interministeriale e per l’Osservatorio. Annuncia inoltre di aver chiesto la collaborazione di Lucia Annibali, una donna diventata un simbolo non solo per il coraggio con cui ha affrontato le torture inflitte dall’acido sul suo volto, ma più ancora per la volontà di avere giustizia e di non rinchiudersi nel ruolo perdente della vittima. La ministra comincia, finalmente, a parlare di soldi per i Centri antiviolenza. Si tratta, per ora, di quelli già stanziati dal precedente governo.

Pari Opportunità vuol dire tante cose, dalle discriminazioni razziali a quelle sul lavoro, dai congedi di maternità e paternità al recepimento delle direttive europee, ma tutte pensiamo una cosa: il centro della questione sono le risorse per le politiche di prevenzione della violenza e per il sostegno alle vittime. Questo sono, e come quelle risorse debbano essere impiegate. I Centri antiviolenza, che in Italia hanno oramai una storia e una esperienza trentennale, possono insegnare come fare, ma boccheggiano. Le Regioni, cui è delegata la gestione dei fondi, si sono rivelate in taluni casi latitanti, o inefficienti, o peggio. Sembrerà buon segno, allora, il fatto che lo scorso 8 settembre si svolga la prima riunione della cabina di regia interistituzionale contro la violenza di genere. Presenti, per il governo, oltre a Boschi, i Ministri Giannini (istruzione) e Costa (affari regionali), più uno stuolo di sottosegretari. È la prima volta che si mette in piedi un organismo che riunisce intorno a un tavolo Stato, Regioni, Enti locali, per coordinare politiche di prevenzione e di contrasto di quella particolare forma di violenza che vede nella maggior parte dei casi le donne come vittime: per il fatto di essere donne e di rivendicare la propria autonomia.

Il primo passo è andare a vedere dove sono finiti i fondi stanziati. Spiega Boschi al Parlamento che, dei trenta milioni stanziati negli anni precedenti, circa un terzo delle risorse non sono state nemmeno spese. In difetto, innanzitutto, Lazio e Molise. Successivamente, a fine ottobre, annuncia lo stanziamento di 20 milioni di euro aggiuntivi. Pare vogliosa di impegnarsi, la nostra ministra, e di smentire quanti e quante nutrono sfiducia, nella sua giovane età, nella sua inesperienza politica e, almeno a quanto pare, nella sua estraneità al femminismo. E però. Se è vero che il femminismo ha cambiato l’idea di sé di tutte le donne e ha stravolto, come si dice, “l’ordine simbolico”, l’agire di MEB e l’importanza stessa delle responsabilità che si è assunta, potrebbero essere considerate una riprova. La vediamo nella Tre giorni del Tempo delle donne, a Milano, parlare di formazione degli operatori degli ospedali, di protocolli con le Forze dell’Ordine e di lavoro culturale. A partire da quello sulla lingua. Perché negli atti pubblici siano indicate al femminile le cariche rivestite da donne. Sembra piccola cosa, ma forse è la rottura di un tabù che pareva prerogativa, nei palazzi della politica, della sola presidente della Camera Laura Boldrini. MEB è diligente e impara benino la lezione a memoria, suona il commento delle più benevole. A scorrere twitter, o facebook, si leggono cose più pesanti. È la pupilla del Premier, si dice. Quando la si nota meno in tv, fioriscono i retroscena: visto? Già caduta in disgrazia, usata e buttata via. Pochi e poche sono disposti a riconoscerle qualche autonomia.

Torniamo alla cronistoria. Proprio nei primi giorni di settembre, con gli arresti disposti dalla magistratura, esplode nei media il caso orribile della tredicenne di Melito di Porto Salvo, violentata e ricattata per due anni da una banda di ragazzotti capitanati dal rampollo di un boss mafioso. Melito, provincia di Reggio Calabria, sembra riassumere in sé il peggio di una società patriarcale e omertosa. Alla fiaccolata indetta in solidarietà con la giovane vittima, gran parte del paese è assente. Anche la ministra con delega alle pari opportunità è assente. Non le verrà perdonato. Nello stesso giorno lei è a Reggio Calabria, alla festa dell’Unità, per parlare di riforme e referendum.

Le donne dei Centri Antiviolenza, con lettera pubblica, la invitano a recarsi a Melito: «se lei va a Melito Portosalvo, le cittadine e i cittadini che hanno a cuore la legalità, quelli che sono inorriditi dell’accaduto, che sospettano non si tratti di un caso isolato, avranno il coraggio di uscire di casa per venire ad ascoltarla». Boschi prende un aereo e torna a Reggio Calabria. Non fa comizi, incontra prefetto, magistrati, vescovi, insegnanti, sindacalisti e i Centri antiviolenza presenti sul territorio. Dice cose ovvie quanto sagge: non sono le vittime a doversi vergognare ma coloro che commettono violenze. Dichiara: «non ci fermeremo finché davanti alla violenza contro le donne ci sarà chi penserà e dirà “se l’è andata a cercare”». Si impegna a finanziare un centro di ascolto per studenti e studentesse nel liceo frequentato dalla ragazza di Melito, parla di iniziative concrete, rivendica la norma inserita nel Job act che prevede il congedo per le donne vittime di violenza, partecipa a una riunione con le forze di polizia. Ci sarà comunque chi parlerà di “passerella elettorale” e di una solidarietà arrivata in ritardo. Altre parleranno di povertà culturale, di scarsa conoscenza dell’elaborazione femminista.

Sta di fatto che un mese dopo (20 ottobre) è di nuovo a Reggio Calabria insieme con Laura Boldrini e Rosy Bindi per la manifestazione contro la violenza alle donne promossa dalla Regione. Parla di nuovo di onore e di vergogna. Ricorda Franca Viola, annuncia nuovi finanziamenti per i Centri antiviolenza e i progetti di ascolto nelle scuole.

In fondo è questo che ci si aspetta da una ministra “senza portafoglio”. O non solo? Oppure vorremmo altro? E che cosa? Il lavoro. I congedi. L’obiezione di coscienza sull’aborto. Le questioni sul tappeto sono tante, tutte aperte. Saprà Maria Elena Boschi ascoltare e decidere? Ne avrà tempo e voglia, mentre gira per l’Italia come una trottola per spiegare la riforma che porta il suo nome? C’è la Politica, quella con la P maiuscola e c’è l’Amministrazione. Vorremmo che la prima orientasse la seconda. Che andrà poi valutata sui fatti, sui soldi realmente investiti e come, sui risultati. Troppo presto per dare un giudizio, se non fondato su schieramenti a prescindere, vale a dire sul pregiudizio. Conta anche l’esempio. Non per questione moralistica: i personaggi pubblici, volenti o no, rappresentano un modello. Onori ed oneri, si dice.

L’onere sulle spalle di questa giovane donna è molto pesante. Forse non aiutano quelli che, per criticarla (pur legittimamente), la rappresentano come «un’avvocaticchia di Arezzo che alla Costituente avrebbe a stento levato la polvere dai davanzali» (Marco Travaglio). Che amano soffermarsi sui suoi fianchi, o la disegnano con le cosce scoperte, e che giocano con qualche trivialità da spogliatoio maschile. È anche così, lo sappiamo, che si alimenta la cultura misogina che non siamo più disposte a sopportare.