Femminismi/ Una difficile messa a fuoco

Si chiama “Femminismi” il nuovo numero di Leggendaria, che potete già acquistare in Pdf sul sito www.leggendaria.it mentre per le copie cartacee in libreria il 20 febbraio.

Questo il mio contributo.

La chiusura di Via Dogana, alcuni incontri e i numerosi dibattiti fioriti negli ultimi mesi ci hanno offerto l’opportunità per una messa a punto dello stato dei femminismi in Italia. Fuori dal dibattito e da qualche polemica  – essendo, per ragioni di lavoro, spesso fuori dall’Italia – penso che al momento ci siano alcuni temi, o forse le parole per dirli, che ancora credo non siamo state in grado di trattare con l’attenzione che abitualmente prestiamo al mondo che ci sta intorno. Forse sarebbe meglio dire ai mondi che ci circondano, porosi e mutevoli per condizioni storico-temporali e sociali. Usare aggettivi come vicino e lontano, ad esempio, a mio avviso non va più bene: non possiamo certo pretendere di seguire le sorti del mondo in tutti i dettagli ma alcuni grandi cambiamenti sì. Scelgo poche tematiche che mi sono care.

Giovani e differentemente giovani

Barbara Romagnoli ha messo in evidenza un punto cruciale: le differenze di età possono mettere in difficoltà le relazioni tra donne/femministe? Direi di sì. Potrebbe trattarsi di una difficoltà di comunicazione tra generazioni, come è successo a noi (ora 50-60enni) quando da giovani abbiamo lasciato casa perché volevamo un mondo migliore e perché nemmeno volevamo-potevamo parlare con le nostre madri. Oggi le figlie/figli sono migliori di noi, come spesso accade, possiamo meglio parlare con loro e quando vanno via di casa lo fanno sostenuti dal nostro amore e dal nostro incoraggiamento. Quando decidono – o sono costretti – a restare non hanno bisogno di “nominarsi” come dicevamo un tempo, perché quello spazio casalingo è condiviso: su questo abbiamo cercato e trovato in molti casi un vocabolario comune, non sempre ci troviamo d’accordo ma ci capiamo (penso, ad esempio, al dialogo a due voci tra Mariella Gramaglia e sua figlia Maddalena Vianello diventato un libro: Tra me e te, Edizioni et al. – un libro che ancora me la fa rimpiangere immensamente). E se c’è un rammarico comune è tutto italiano – questo sì – nel vedere la difficoltà che incontrano le/i giovani di farsi strada nella vita: disoccupazione, corruzione, nepotismo, sfruttamento e discriminazione sessuale.

Questo è un vulnus che minaccia spesso i rapporti tra generazioni diverse nei nostri femminismi; già ai tempi della pubblicazione de “Il doppio sì” mi pare sfuggisse al gruppo di donne della Libreria di Milano – che ragionava intorno alla libertà/possibilità di non lavorare per dedicarsi volontariamente e con gioia al lavoro di cura – che questo è un lussuosissimo privilegio riservato a poche agiate, che possono concedersi questo tipo di scelta. E che  da quel testo alcune si sono sentite oltre che escluse quasi offese, per aver ignorato che il dibattito sul lavoro è uno dei temi che nessun gruppo femminista ha mai trascurato.

L’assunzione del precariato come parte fondante delle nuove identità non può che inasprire il conflitto, al di là dei discorsi sul potere. Come si fa a sentirsi parte di un gruppo o rappresentate – anche se nella “differenza” – quando chi ti sta di fronte non ha mai sperimentato quel crinale che ti fa alzare al mattino senza sapere dove potrai poggiare i piedi per il resto del giorno? Precariato e nuove povertà sono tema doloroso anche per chi giovane non è, e io confesso in prima persona il disagio della mia precarietà, pur nemmeno lontanamente paragonabile a una giovane laureata costretta al precariato in un call center, perfino quando sono con le amiche più care: non riesco a condividere le mie preoccupazioni di donna che guarda alla vecchiaia con paure, io che considero molte come sorelle le vedo lontane e, anche se attente al mondo, collocate in un universo parallelo.

Fondamentalismi e diversità

Mi pare che oggi il femminismo della differenza non riesca ad affrontare e registrare i cambiamenti rapidi a cui il mondo ci fa assistere. Non è una accusa: il mondo sta girando troppo in fretta. Eppure da anni le comunità delle straniere immigrate sono una realtà tangibile e organizzata: riusciamo a lambirle, ad entrare in contatto con le diverse associazioni di donne immigrate, ma non siamo parte dello stesso universo, non comunichiamo, non abbiamo un fronte comune. So che molte donne italiane lavorano con le donne straniere che vivono in Italia: le operatrici che combattono contro la violenza alle donne, la lotta per il riconoscimento e il rispetto dei diritti sul lavoro, l’assistenza sociale alla salute, la prostituzione, lo sfruttamento e la tratta. Nello specifico però non riesco a cogliere un cammino comune, una riflessione teorica che porti alla presa di posizioni congiunte, un ragionamento politico che mostri in qualche modo che sentiamo di essere parte dello stesso mondo che sta cambiando, che insieme è la parola più corretta per definire la volontà di cambiamento.

Ancora più difficile e spinoso l’argomento quando si parla dei nuovi fondamentalismi e della jihad che sta coinvolgendo anche le donne: mentre scrivo sono trascorsi appena pochi giorni dagli eventi che nel gennaio scorso che hanno scosso Parigi e il mondo intero e molto verrà detto e indagato. Quello che è sul piatto attualmente rivela un fenomeno nuovo e complesso, in evoluzione rapida e profondamente distante, se non opposto, al pacificismo che ci ha sempre animato: come leggere la scelta di donne istruite in Europa che lasciano lavoro e famiglia per andare a combattere nelle file dell’Isis? O anche alle donne curde di Kobane che imbracciano le armi per difendere la loro città, lasciate sole dalle autorità a difendere figli, casa e identità? Anna Maria Crispino mi diceva che le donne di Kobane le ricordano le nostre partigiane in bicicletta, in guerra insieme gli uomini, in una condizione in cui il tempo del pensare deve necessariamente coniugarsi a quello dell’agire. Non ci sono solo i/le terroristi islamici, ma anche le madri francesi immigrate che ai tempi dei disordini nelle banlieux parigine di alcuni anni fa si offrirono di mediare per sedare quella esplosione di violenza che veniva dai loro figli, nati in Europa. Giovani,che sentono propria quella cittadinanza, rivendicando al tempo stesso le loro radici islamiche, mostrando tutto lo scontento di una condizione sociale che li vede emarginati, proprio come i quartieri in cui abitano. Siamo lontane anni luce dai dibattiti sul velo: vecchie e nuove oppressioni ci accomunano.

Forse non abbiamo più solo bisogno di nominare le madri, dovremmo più coraggiosamente mettere, oltre al naso, il cuore fuori dalle nostre porte e ragionare insieme, iniziando con la comprensione di un nuovo linguaggio, che parla anche del manifestarsi della rabbia e della violenza che oggi anche molte donne hanno scelto. Perché accanto alle donne della jihad ci sono anche le madri musulmane che dopo i fatti di Parigi hanno paura di portare i loro bambini a scuola, temendo di vederli discriminati, quando non oggetto di aggressioni: ne stiamo facendo cittadine e cittadini di serie B e – sebbene  questo sicuramente non può essere solo una nostra responsabilità  – bisogna però riflettere sulle forme di dialogo, su una strategia comune di comunicazione e informazione, forse alla stessa maniera con cui anni fa alcune di noi aprirono con gli uomini il dialogo sulla differenza.

I femminismo transnazionale, di cui poche in Italia si sono occupate (iniziando decenni fa con il dibattito con le donne del sud del mondo) è una delle strade che potrebbero essere intraprese: il 2015 celebrerà il ventennale della Conferenza mondiale delle donne di Beijing (Pechino), e questi temi dovranno necessariamente far parte dell’agenda.