La Pastorale americana e la grande famiglia elettorale
Dall’Uganda, spedita in missione elettorale, confesso di dedicare il poco tempo libero che ho e quello notturno, alla campagna americana. Per il modo in cui è stata concepita e per la maniera in cui viene condotta: se penso alle campagne italiane, in cui ormai il numero dei non votanti sta superando quello dei votanti, l’interesse degli americani – o direi meglio la maniera in cui esso viene rappresentato – racconta una grande parte dell’anima statunitense.
In genere procedo in questo modo: scelgo una/un candidato prima del caucus in Iowa, mi innamoro e la/lo seguo come se potessi davvero farlo. Se dovessi affidarmi alla ragione non potrei fare altro che sostenere Hillary, con il suo abito rosso malamente abbinato al biondo-mèche dell’acconciatura ( a proposito: chi il drogato che ne cura l’immagine?): ma chi se ne frega, è stata così abile nella sua vita pubblica e privata da essere la candidata ideale. Ma è presto per dirlo (guardate cosa è successo ieri in Iowa… e non è un caso che i fan della serie tv The Good wife abbiano apprezzato il fatto che la nuova puntata della serie è interamente ambientata nello stato dove la campagna elettorale inizia). Invece seguo il cuore, la tv, e la rappresentazione mediatica del pubblico americano, che mi strega esattamente come le loro serie tv, e non solo.
Questa volta poi il caucus dell’Iowa è caduto durante la rilettura a distanza di vent’anni di quel monumento alla letteratura contemporanea che è Pastorale americana di Philip Roth (bello tornare sui libri che credi di aver capito da giovane e invece no). In breve: il protagonista è sempre l’alter ego dello scrittore, Nathan Zuckerman, che sceglie a pretesto un raduno di ex alunni di college per ricostruire la storia della gioventù americana dagli anni ’50 al ’74. Di una speciale gioventù in particolare: quella degli emigranti ebrei dall’Europa dell’Est, i cui padri e madri avevano deciso lasciarsi alle spalle – ove mai fosse stato possibile – la Shoah e cercare di vivere di nuovo, come il Golem della loro mitologia. Self made men che hanno messo su fabbriche artigiane, i cui figli le hanno poi trasferite in Indonesia e poi in Cina. Figli cresciuti nel mito dello sport che rende più celebri dello studio: ecco perché Zuckerman ama quello che viene soprannominato lo Svedese, fulcro del suo racconto. Il biondo atleta che tutti adorano, quello che sposerà una miss cattolica irlandese, perché questo era il miracolo americano del tempo, il tutto possibile, la giusta ricompensa solo a chi lavora sodo, il rito del pranzo domenicale, il continuo refrain del lavora, sii giusto e sarai ricompensato. Certo che lo Svedese ci crede, lo Svedese è l’invidia di tutti i compagni smunti e senza muscoli, che diventerà il titolare della fabbrica di guanti di suo padre, con un fratello chirurgo che piuttosto che andare al confronto diretto con il gigante di casa, preferirà allontanarsi il più possibile da Newark, sobborgo di migranti. Lo Svedese che protegge la figlia balbuziente e diligente, lo Svedese attonito e distrutto nel vederla trasformata giovanissima in una terrorista capace di uccidere con una bomba anche i vicini di casa e poi sparire.
La grandezza di Roth, in tutti i suoi romanzi, sta nella cruda onestà di parlare a un mondo maschile – ancora non molto numeroso – che ha il coraggio di chiedere al presente: cosa ho fatto? cosa non ho capito del passato? e cosa soprattutto non mi permette di sopravvivere al presente?
L’America è stata per molti anni così: quella dei grandi valori morali e civili e la pioniera dei movimenti rivoluzionari, l’America del reverendo King e del Ku Klux Klan. L’America che ha portato alla Casa bianca un afro americano ma che non ne vede molti per strada a sostenere governatori e presidenti, così come non vede i Latinos, i rappers neri la cui musica è fantastica per ballare ma non per dedicare alle loro famiglie un welfare che restituisca una dignità di esseri umani. E’ l’America che si era risvegliata con Natural born killers, Goodfellas, Stephen King.
Poi anche quella grande bolla è scoppiata in quel tragico 11 settembre: e l’emergenza che stava tutta dentro il paese (si certo l’Iraq ma niente a che vedere con quello che li avrebbe distrutti dopo) si è compattata verso l’esterno. L’America è sotto attacco, il nemico è solo uno e tutto l’occidente li stringe in una grande abbraccio.
Oggi anche le spese militari fanno parte del programma di alcuni candidati, e ci sono genitori che vogliono indietro vivi i loro figli soldati in Afghanistan, ma il comune sentire è quello.
Nella rappresentazione a volte troppo simile al Truman Show, io resto comunque rapita da quel pubblico che mangia e sventola bandierine, dagli autobus dei candidati e lo stuolo di reporter, la chioma bionda di Trump o il ricordo della mammona Sara Pailin, perché un tocco di esagerazione non guasta mai. Mi impressiona solo quell’eccessivo stringersi in abbracci e mani di candidati/e e famiglie: non ci sono Ellen De Generes che baciano la loro compagna davanti alle telecamere, candidate con l’utero in affitto o cassiere latinos che lavorano ai supermarket della California.
Nell’America del tutto è sempre possibile, i cassetti con i panni sporchi vanno ancora tenuti chiusi.
Così, alla fine di tutto, il mio cuore si è rivolto a Bernie Sanders, impossibile utopico socialista. Non sarà Pelizza Da Volpedo né Rosa Luxembourg ma mi piace perché stona con gli altri candidati. Certo, se baciasse meno la famiglia sarebbe perfetto….